
“Chissà se in questo preciso istante, sulla Terra, c’è qualcuno più a nord di noi?”
80° N.
Penso che chiunque si sia trovato a queste latitudini, alle spalle l’ultimo lembo di terra del Mondo e davanti il mare di ghiaccio che conduce dritto al Polo Nord, si sia posto questa domanda.
E’ una sensazione strana trovarsi quassù. Ci si sente piccoli davanti a una natura indomita. Ma anche il Mondo sembra piccolo: ci siamo solo noi e un gruppetto di sonnacchiosi trichechi. E il silenzio.

Adoro l’Africa. Ancora prima di metterci piede già sapevo che quello era il mio posto. Poi, qualche anno più tardi, ho incontrato le Svalbard. Ed è stata un’altra folgorazione, questa volta inaspettata.

Il mio primo appuntamento con questo arcipelago è stato a marzo, quando il cielo si dipinge di tinte pastello e la terra è totalmente coperta di bianco. Non troverò mai le parole giuste per descriverne la bellezza, né per raccontare le sensazioni provate in quel primo viaggio. O forse proprio non esistono! Perché nessuna parola può rendere l’idea dell’emozione di solcare in motoslitta il mare ghiacciato della desolata east coast, dove vivono solo orsi polari, al cospetto di un enorme ghiacciaio, sotto una tempesta artica.


Quando sono tornata alle Svalbard, in primavera, ho trovato un mondo totalmente diverso, ma, ancora una volta, splendido: questo è il tempo in cui la neve si fa da parte per lasciare spazio alla terra, ai prati, ai primi fiori. Le volpi artiche si spogliano del loro candido manto e iniziano a vestire i colori delle bella stagione. Le isole si popolano di uccelli, che riempiono il silenzio con i loro canti… giorno e notte, perché quassù, da aprile ad agosto, la notte non esiste.


E’ il tempo in cui si parcheggiano le motoslitte e si inizia a navigare verso sud, sino a raggiungere l’insediamento di minatori russi di Barentsburg. Qui si mischiano natura e storia: al paesaggio come sempre grandioso si unisce un salto nel tempo e nello spazio, sembra infatti di essere stati catapultati nell’Unione Sovietica degli anni ’80.


L’estate, alle Svalbard, dura poco, e si trasforma presto in autunno. In agosto le montagne attorno a Longyearbyen, il centro abitato più popoloso dei 5 presenti nell’arcipelago (ben 2000 abitanti!), sono prive di neve, lasciandosi finalmente ammirare in tutta la loro splendida severità.

La tundra inizia a tingersi di rosso, giallo e arancione. I ghiacci sono al loro minimo, permettendo la navigazione sino all’estremo nord e spesso anche la circumnavigazione dell’arcipelago. I paesaggi grandiosi, i ghiacciai, l’incontro con gli orsi polari, le balene, i tramonti infiniti immediatamente seguiti da albe altrettanto infinite non possono fare altro che colpire il cuore di chiunque decida di spingersi a queste latitudini.



E infine c’è lei: Pyramiden, una ghost town sovietica nel cuore dell’artico.

Fondata nel 1910 dai minatori svedesi, viene ceduta nel 1927 alla compagnia mineraria sovietica Russkij Grumant. La cittadina, abitata da minatori sovietici, vide il suo massimo splendore tra gli anni Sessanta e Ottanta, quando raggiunse oltre 1000 abitanti, che potevano godere di servizi essenziali quali scuola, asilo, cinema, piscina, palestra, ospedale, mensa, pub e biblioteca. I residenti, a seconda che fossero uomini single, donne single o famiglie venivano assegnati a diversi palazzi residenziali, ciascuno col proprio soprannome (il palazzo in cui vivevano le famiglie era stato soprannominato Crazy House a causa degli strilli dei bambini che giocavano nei corridoi!). La vita a Pyramiden scorreva tranquilla, erano nate grandi amicizie tra gli abitanti della comunità, che avevano anche iniziato ad apprezzare l’asprezza del luogo. Ma, con la caduta dell’Unione Sovietica, crollarono anche i finanziamenti che fecero quindi cessare le complesse attività estrattive. Il 29 agosto 1996 il volo Vnukovo 2801 proveniente da Mosca, che stava riportando a Pyramiden 130 dei suoi abitanti, si schiantò contro la montagna di Operafjellet. La tragedia colpì profondamente la comunità, sia a livello morale sia a livello numerico, e sancì di fatto la fine di Pyramiden. Il 31 marzo 1998, quando gli abitanti erano ormai solo 300, venne estratto l’ultimo pezzo di carbone, e, nei giorni seguenti, la città venne abbandonata.
Oggi Pyramiden è nella stessa condizione in cui si trovava quando fu abbandonata: le lenzuola piegate sui letti, i piatti ordinatamente impilati sugli scaffali della mensa, le bottiglie di vodka sul bancone del pub, l’attrezzatura utilizzata per l’estrazione del carbone pronta a tornare all’opera da un momento all’altro, come se gli ultimi abitanti della comunità avessero di colpo interrotto ciò che stavano facendo e se ne fossero improvvisamente andati.
Col passare degli anni la natura si è impossessata di parte della città, aumentandone ulteriormente il fascino: oggi la Crazy House è rifugio di migliaia di uccelli migratori che ne fanno, ancora una volta, il luogo più rumoroso di Pyramiden. Volpi artiche e orsi polari spesso passeggiano tra i suoi palazzi in stile sovietico mentre la statua di Lenin più a nord del Mondo continua a dominarne l’enorme e solitaria piazza.
